Santa Marcella di Roma
Vedova (Memoria 31 gennaio)

Alcune lettere di s. Girolamo, in particolar modo l’Ep. 127, alla vergine Principia, discepola di Marcella, costituiscono le fonti principali per la vita della santa.
Appartenne ad una delle più illustri famiglie romane: quella dei Marcelli (secondo altri dei Claudi). Nacque verso il 330, ma non ebbe la giovinezza felice, essendo ben presto rimasta orfana del padre. Contratto matrimonio in giovane età fu nuovamente colpita da un gravissimo lutto per la morte del marito avvenuta sette mesi dopo la celebrazione delle nozze. Questi luttuosi avvenimenti fecero maggiormente riflettere Marcella sulla caducità delle cose terrene tanto piú che nella fanciullezza era rimasta assai affascinata dalle mirabili attività del grande anacoreta Antonio, narrate nella sua casa dal vescovo Atanasio (340-343).
Lo spirito ascetico propugnato dal monachesimo, consistente nell’abbandono di ogni bene mondano, andò sempre più conquistando l’animo della giovane vedova. Quando perciò le furono offerte vantaggiose seconde nozze col console Cereale (358), nonostante le premurose pressioni della madre Albina, oppose al ventilato matrimonio un netto rifiuto, motivato dal desiderio di dedicarsi interamente ad una vita ritirata facendo professione di perfetta castità.
Così Marcella, secondo San Girolamo, fu la prima matrona romana che sviluppò fra le famiglie nobili i principi del monachesimo. Il suo maestoso palazzo dell’Aventino andò trasformandosi in un asceterio ove confluirono altre nobili romane come Sofronia, Asella, Principia, Marcellina, Lea; la stessa madre Albina si associò a questa nuova forma di vita.
Più che di vita monastica in senso stretto si può parlare di gruppi ascetici senza precise regole, ma ispirati ai principi di austerità e di disprezzo del mondo, propri della scuola egiziana, assai conosciuti attraverso la vita di Sant’Antonio e le frequenti visite di monaci orientali. Lo stesso vescovo di Alessandria, Pietro, fu nel 373 ospite della casa Marcella e narrò la vita e le regole dei monaci egiziani.
Forse proprio dopo il 373 la casa di Marcella divenne un vero centro di propaganda monastica. Riservatezza, penitenza, digiuno, preghiera, studio, vesti dimesse, esclusione di vane conversazioni furono il quadro della vita quotidiana quale risulta dalle lettere di San Girolamo, divenuto dal 382 il direttore spirituale del gruppo ascetico dell’Aventino. Di lei il santo disse: ”Dopo avere disprezzato ricchezze e nobiltà, divenne ancor più nobile per povertà e umiltà”. Nella domus di Marcella entravano vergini e vedove, preti e monaci per intrattenersi in conversazioni basate specialmente sulla Sacra Scrittura. Il sacro testo, specie il Salterio, non fu studiato solo superficialmente: per meglio comprenderne il significato, Marcella imparò l’ebraico e sottopose al dotto Girolamo molte questioni esegetiche, come ne fanno fede varie lettere a lei dirette. Fra Girolamo e Marcella si strinse una profonda spirituale amicizia, continuata anche dopo la partenza del monaco per la Palestina.
Tuttavia questa donna fu di spirito più moderato, tanto da non condividere pienamente le violente diatribe e le acerbe polemiche del dotto esegeta. Simile moderazione dimostrò nelle pratiche ascetiche; pur amando e professando la povertà non alienò in favore della Chiesa e dei poveri tutti i suoi beni patrimoniali, anche per non recare dispiacere alla madre. Né volle trasferirsi a Betlemme, nonostante una pressante lettera delle amiche Paola ed Eustochio. Preferì invece continuare la diffusione della vita ascetica e penitente in Roma; per molti anni infatti la sua domus dell’Aventino rimase un cenacolo ascetico specie fra le vergini e le vedove della nobiltà.
Verso la fine del IV sec. si trasferì in un luogo più isolato nelle vicinanze di Roma, forse un suo ager suburbanus, nel quale visse con la vergine Principia come madre e figlia. Rientrò in Roma nel 410 sotto il timore dell’invasione gota; in tale occasione Marcella subì percosse e maltrattamenti e a stento riuscì a salvare Principia dalle mani dei barbari, rifugiandosi nella basilica di San Paolo.
Morì nello stesso anno e la sua festa è celebrata il 31 gennaio.
(Autore: Gian Domenico Gordini)
Santa Paola romana
Vedova (Memoria 26 gennaio)
Roma, 5 maggio 347 – Betlemme, 26 gennaio 406

Appartiene a una ricchissima famiglia “senatoria”, all’alta aristocrazia romana. Nata durante il lungo regno di Costantino II, a quindici anni le hanno fatto sposare Tossozio, un nobile del suo rango. Il suo è un matrimonio felice, perché arrivano via via quattro figlie (Blesilla, Paolina, Eustochio e Ruffina), e poi un maschio che viene chiamato Tossozio, come il padre. Ma è anche un matrimonio breve, troppo breve: a 32 anni Paola è, infatti, già vedova.
Continua a dedicarsi alla famiglia, ma anche a impegni religiosi e caritativi. Il suo palazzo accoglie incontri, riunioni di preghiera e di approfondimento della dottrina cristiana, iniziative per i poveri. Però non è un club di dame benefiche: ha piuttosto qualche connotato monastico, e acquista vivacità quando Paola invita agli incontri il dalmata Girolamo, giunto nel 382 a Roma insieme a due vescovi d’Oriente. In gioventù egli ha studiato a Roma; è stato poi in Germania e ad Aquileia, e per alcuni anni infine è vissuto in Oriente, asceta e studioso insieme. A Roma diventa collaboratore del papa Damaso. È un divulgatore appassionato degli ideali ascetici, ha una preparazione culturale di raro spessore, e di certo non la nasconde. Così nel clero e nell’aristocrazia si procura amici e nemici ugualmente accesi. Il suo ascendente è forte specialmente nella cerchia di Paola, alla quale comunica la sua passione per le Sacre Scritture. E nel 384 la conforta per un nuovo dolore che l’ha colpita: è morta Blesilla, la sua figlia maggiore.
Nel dicembre dello stesso anno muore il papa Damaso, e Girolamo riparte verso la Terra santa per dedicarsi all’opera che stava tanto a cuore a quel Pontefice, e che ora impegnerà lui fino alla morte: dare alla Chiesa le Sacre Scritture in una corretta e completa versione in lingua latina.
L’anno successivo parte verso l’Oriente anche Paola, accompagnata dalla figlia Eustochio, mentre Paolina, a Roma, si occuperà di Ruffina e Tossozio. (E in Roma si riaccendono vecchie calunnie su un suo presunto rapporto amoroso con Girolamo). Paola percorre dapprima l’Egitto, nei luoghi dove i Padri del deserto hanno voluto ritirarsi, «soli al mondo con Dio». Poi ritorna con la figlia in Palestina, a Betlemme: e qui si ferma per sempre. Spende le sue ricchezze per creare una casa destinata ai pellegrini, e due monasteri, uno maschile e uno femminile. Nel primo lavorerà Girolamo fino alla morte (nel 419/420). Paola prende dimora in quello femminile, nel quale si costituisce una comunità sotto la sua guida. Fra queste mura, «Paola era in grado di volare più in alto di tutte per le sue eccezionali doti» (Palladio, Storia lausiaca).
E qui Paola muore a 59 anni, affidando le cinquanta monache alla figlia Eustochio. Qui rimarrà per sempre sepolta: «In Betlemme di Giuda», come dice di lei il Martirologio romano, dove «con la beata vergine Eustochio sua figlia si rifugiò al presepe del Signore».
(Autore: Domenico Agasso)
Santa Eustochio
Vergine (Memoria 28 settembre)

Eustochio nacque a Roma non prima del 367, terzogenita del senatore Tossozio e della matrona Paola, appartenenti ambedue all’alta aristocrazia romana. Dopo un periodo giovanile dedito alla mondanità, alla morte del padre, avvenuta nel 379, seguì la madre nell’aggregarsi al cenacolo di Marcella sull’Aventino. Quando, negli anni 382-85, San Girolamo soggiornò a Roma, ella gli fu affezionata discepola, frequentando assiduamente le conferenze sulla Sacra Scrittura che il santo dottore teneva a un gruppo di signore romane nella casa di Marcella. Per lei, alunna esemplare, egli scrisse l’Epistola XXII, che può definirsi il più diffuso trattato sulla verginità. In occasione della festa dei santi Apostoli Pietro e Paolo del 384, Eustochio gli mandò un biglietto e alcuni doni simbolici, cioè un paniere di ciliegie, alcune armille e alcune colombe. Girolamo le rispose con una lettera molto arguta.
Quando Paola decise di fissare la sua dimora in Palestina per non rimanere priva della direzione di san Girolamo, Eustochio si unì a lei. Nell’autunno del 385, madre e figlia si imbarcarono a Porto Romano e sbarcarono a Seleucia, porto di Antiochia di Siria, capitale della regione, accolte dal vescovo Paolino. Qui era Girolamo ad attendere le pellegrine. Il gruppo bordeggiò lungo la costa della Siria e, quindi, della Palestina, toccando Tolemaide, Cesarea, Diospoli, Joppe, salendo per Nicopoli a Gerusalemme e recandosi poi a Betlemme. Continuò le devote esplorazioni spingendosi nella Galilea e quindi in Egitto; in Egitto volle vedere anche la Nitria. Girolamo, profondo conoscitore della Sacra Scrittura, sapeva illustrare ogni luogo da dotto. Nel 386 la carovana ripartì per la Palestina; a Betlemme Paola costruì due monasteri, uno per le religiose presso la grotta e l’altro per i monaci, a debita distanza.
Qui Eustochio dedicò molto tempo allo studio della Sacra Scrittura, divenendo una brava ebraista come Paola; tutte e due, poi, sapevano stimolare Girolamo al lavoro biblico. Egli dedicò loro la traduzione del Libro dei Re; le diciotto prefazioni dei libri di Isaia e le quattordici prefazioni di Ezechiele sono dedicate a Eustochio. Ella era la discepola prediletta, perché vergine.
Quando Paola nel 402-403 si ammalò di una malattia che doveva portarla alla morte, Eustochio compì verso di lei tutti i doveri dell’amor filiale. Morta la madre, Eustochio prese la cura e il governo del monastero da lei fondato, camminando sulla scia luminosa degli esempi e degli ideali della genitrice. Qui continuò a stimolare Girolamo a continuare i lavori biblici, che aveva intrapreso per le insistenze della madre. Per lei Girolamo tradusse la regola di san Pacomio, verso il 404. Morì nel 419, ma non si conosce il giorno del suo transito, per cui i martirologi lo mettono al 20 o 28 settembre, al 20 febbraio, al 2 marzo e al 2 novembre. Tre brevi lettere di Girolamo ci dicono la sua desolazione: «la morte improvvisa della santa e venerabile vergine di Cristo mi ha sconvolto ed ha cambiato il mio genere di vita».
Eustochio non ha avuto alcun culto nell’antichità: è entrata nei martirologi piuttosto recentemente, e in pochi. Il Martirologio Romano la ricorda al 28 settembre. È raffigurata assieme alla madre santa Paola come pellegrina ai Luoghi Santi.
(Autore: Filippo Caraffa)
Sant’ Asella di Roma
Vergine (Memoria 6 dicembre)

Questo nome insolito ha un significato ancor più inaspettato: in latino, Asella voleva dire infatti ” asinella “. Non era un nome ingiurioso, e nemmeno ridicolo: aveva anzi tono affettuoso, forse in omaggio alla pazienza e alla docilità del laborioso asinello.
Del resto la vita di questa Santa è tale da far dimenticare qualsiasi sottinteso si volesse evocare a causa del nome asinino. E’ infatti una creatura eccezionale per doti umane e per virtù soprannaturali: una di quelle donne che in tutti i tempi hanno rappresentato e rappresentano la segreta grandezza del Cristianesimo.
Non fu un personaggio celebre, e il suo ricordo sarebbe sparito dal mondo se di lei non avesse scritto, nelle sue lettere, il grande San Girolamo, il dalmata traduttore della Bibbia in latino, e Dottore della Chiesa.
Vivendo a Roma, negli anni della sua maturità, Girolamo raccolse intorno a sé un gruppo di donne devote e studiose, i cui nomi si incontrario ancora nel Calendario: Paola, Marcella, Lea, Eustochia e infine Asella.
La storia di Asella, narrata in una lettera dal Santo, è questa: figlia di una famiglia distinta, a soli dieci anni decise di consacrarsi interamente al Signore. Vendé i monili fanciulleschi e gli abiti festivi, indossò una spoglia tunica scura, e prese a vivere nella sua casa né più né meno come una sepolta viva.
” Chiusa in una piccola stanza – scrive San Girolamo – si trovava a suo agio come in Paradiso. Un unico strato di terra era il luogo della sua preghiera e del suo riposo. Il digiuno fu per lei un divertimento; l’astinenza, una refezione… Osservò così bene la clausura da non arrischiar mai di metter fuori un piede, né parlò mai ad un uomo… “.
Lavorava continuamente, non per sé, ma per i poveri, e al tempo stesso pregava o salmodiava. Visitava anche le tombe dei Martiri, ma nell’oscurità, senza mai farsi riconoscere. La vita durissima non le fiaccò il fisico; al contrario, sui cinquant’anni, secondo la testimonianza di San Girolamo era ” ancora in buona salute, e ancor più sana in spirito “.
” Niente di più gioioso della sua severità -scriveva di lei il grande Dottore, – niente di più severo della sua gioia. Niente di più grave del suo riso: niente di più attraente della sua tristezza… La sua parola è silenziosa e il suo silenzio parla “.
Quando il grande studioso dovette lasciar Roma, costretto da molte ostilità e da malevoli sospetti, indirizzò una lettera direttamente ad Asella, mentre si dirigeva verso la Palestina. Ma in questa lettera, come era naturale, non parlava di lei, né tentava la sua modestia con gli elogi. Vi apriva invece il proprio cuore amareggiato, facendo proprio a lei, ormai morta al mondo, un’appassionata difesa dalla sua condotta, contro le calunnie e le ingiuste critiche.
L’ammirazione e l’affetto per la cristiana Asella trasparivano però nel commiato, quando Girolamo scriveva: ” Ricordatevi di me, o insigne modello di pudore e di verginità, e con le vostre preghiere placate i flutti del mare “. Asella, che a quel tempo aveva passato la cinquantina, visse ancora a lungo, nella sua clausura e nella sua penitenza. Vent’anni dopo era tuttora viva, e bella di una spirituale bellezza. Così almeno la vide uno storico dell’epoca, Palladio, il quale scrisse: ” Ho visto a Roma la bella Asella, questa vergine invecchiata nel monastero. Era una donna dolcissima, che mandava avanti diverse comunità “. Le sue reliquie si trovano nella basilica dei Santi Bonifacio e Alessio all’Aventino, a Roma, e nella chiesa di Sant’Abbondio a Cremona.
Santa Lea
Vedova (Memoria 22 marzo)

Nella seconda metà del IV secolo i cristiani di Roma sono ormai molto numerosi. Ma con qualcuno di troppo. Infatti, in mezzo ai credenti veri s’infiltrano pure i ceffi untuosi e avidi dei voltagabbana di sempre, inquinatori della Chiesa. “Con questi qui d’attorno, essere santi diventa rischioso”. Così si sfoga san Girolamo (ca. 347 – 420) che, da buon dàlmata focoso, qualche volta esagera. Ma qui parla di cose toccate con mano durante il suo soggiorno nell’Urbe, a contatto con quei gruppi cristiani che al pericolo di contagio spirituale oppongono la loro fede, approfondita con lo studio e “predicata” con l’esempio. Questo è il tempo di Roma sostituita da Milano come capitale effettiva, e ben poco frequentata dagli imperatori, sempre in guerra ai confini: nel 375 la morte coglie Valentiniano I durante una campagna in Pannonia (Ungheria); e il suo successore Valente muore nel 378 combattendo i Visigoti ad Adrianopoli (oggi Edirne, Turchia europea).
In questi tempi vive Lea, che conosciamo soltanto grazie a san Girolamo. Egli ne parla in una lettera alla gentil donna Marcella, animatrice del cristianesimo integralmente vissuto, che ha dato vita a una comunità femminile di tipo quasi monastico nella sua residenza sull’Aventino. Anche Lea è di famiglia nobile: rimasta vedova in giovane età, pareva che dovesse poi sposare un personaggio illustre, Vezzio Agorio Pretestato, chiamato ad assumere la dignità di console.
Ma lei è entrata invece nella comunità di Marcella, dove si studiano le Scritture e si prega insieme, vivendo in castità e povertà. Con questa scelta, Lea capovolge modi e ritmi della sua vita per diffondere, come diremmo noi, un “messaggio forte”. E Girolamo dice di lei: “Maestra di perfezione alle altre, più con l’esempio che con la parola, fu di un’umiltà così sincera e profonda che, dopo essere stata gran dama con molta servitù ai suoi ordini, si considerò poi come una serva”.
Marcella ha in lei una fiducia totale: tant’è che le affida il compito di formare le giovani nella vita di fede e nella pratica della carità nascosta e silenziosa. Sarebbe difficile, scrive Girolamo, riconoscere in lei l’aristocratica di un tempo, ora che “ha mutato le vesti delicate nel ruvido sacco”, e mangia come mangiano i poveri che soccorre.
Questo è il suo stile, sotto il segno del riserbo. Agire e tacere. Insegnare con i fatti. Fa così poco rumore che di lei non si sa altro, e ignoreremmo perfino la sua esistenza se Girolamo non l’avesse ricordata in quella lettera, quando lei era già morta (e sepolta a Ostia). Era il 384, anno della morte di papa Damaso I, regnando in concordia gli imperatori Teodosio I e Massimo. Più tardi il primo dei due sconfisse il secondo. E regnò poi da solo, avendolo fatto uccidere.
(Autore: Domenico Agasso)
San Damaso I
Papa (Memoria 11 dicembre)

Quella del IV secolo era una Chiesa impegnata in un enorme sforzo di definizione della propria identità, sia per quanto riguarda il contenuto autentico del Credo che nella determinazione del suo ruolo pubblico sociale. Dopo la pace costantiniana, infatti, la fede cristiana non era più una realtà da nascondere e il culto poteva avvenire alla luce del sole. In questo contesto si inserisce l’opera di papa Damaso I, eletto nel 366 dopo un duro scontro tra fazioni opposte. Il nuovo Pontefice era di origini spagnole, ma nato a Roma, e si dedicò a consolidare il primato della sede petrina, oltre che a ridurre la portata delle eresie. La sua opera più preziosa fu la conservazione delle catacombe e la promozione della memoria dei martiri romani.
Papa e santo
Nonostante il «Liber pontificalis» lo dica «Damasus, natione Spanus, ex patre Antonio», è più corretto considerare Roma come patria di Damaso. Per una serie di elementi se ne può circoscrivere la nascita intorno al 305-306. La data della morte è certa: l’11 dicembre 384. Papa Damaso è stato proclamato santo e l’11 dicembre è il giorno in cui se ne celebra la memoria liturgica.
«Epigrammata Damasiana»
Una caratteristica originale di questo Pontefice consiste nella sua composizione di epigrammi: ne possediamo sessanta, pervenuti nell’originale epigrafico e/o attraverso copie altomedievali del VII secolo, conservate in sillogi dei secoli VIII-XII. Gli esemplari integri o parzialmente integri sono quelli del Vaticano, dei papi e dei martiri sepolti in S. Callisto, di Cornelio, di Eutichio, di Gennaro, di Felicissimo e Agapito, di Agnese, di Proietta.
Lo scisma ursiniano
Alla morte del predecessore Liberio, iniziò una vera e propria lotta per la successione, «attraverso momenti di grave tensione e di scontri cruenti». Il 24 settembre 366 un gruppo di sacerdoti, i tre diaconi Ursino, Amanzio e Lupo e una parte della comunità rimasta fedele a Liberio si riuniscono nella basilica di papa Giulio in Trastevere (S. Maria in Trastevere): viene ordinato vescovo di Roma il diacono Ursino. Damaso con i propri sostenitori si raduna nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina e qui il 1° ottobre 366 – data di inizio del pontificato – si procede alla nomina di Damaso a vescovo di Roma. In più riprese, come racconta precisamente Carlo Carletti, l’atteggiamento di Damaso durante lo scisma ursiniano non fu privo del ricorso alla violenza. La sua è stata definita una «pastorale energica», ma si trattò in realtà di una pastorale molto più che energica e in più di una occasione non si esitò a usare la violenza. La storiografia filodamasiana ha cercato di omettere o ridimensionare queste violenze, cercando di sottolineare la legittimità anche formale della successione a Liberio; così in Girolamo, Ambrogio, Rufino, Socrate e Sozomeno.
Roma, l’Occidente e l’Oriente
«Damaso non fu certo un teologo, né si cimentò direttamente nelle problematiche dottrinali che pure si dibattevano ai suoi tempi: era d’altra parte tutto teso al consolidamento del primato di Roma, e probabilmente impreparato, oltreché per natura alieno a comprendere e ad affrontare – soprattutto in relazione alle delicate questioni delle Chiese di Oriente – quegli aspetti dialettici del dibattito teologico che andassero al di là della semplicistica dicotomia tra niceni e antiniceni. Tuttavia durante il suo pontificato la Sede romana accentua notevolmente la sua funzione nel mediare e dirimere (ma non sempre con successo) molteplici questioni dottrinali e disciplinari che si dibattevano sia in Occidente sia in Oriente», scrive Carletti. A tal proposito è opportuno ricordare il concilio svoltosi a Roma tra la fine del 377 e l’inizio del 378, che può essere considerato «la prima assise conciliare romana che si occupa intenzionalmente di questioni dottrinali e disciplinari relative all’Oriente cristiano».
Un concordato ante litteram
Nel 378 un altro concilio chiede all’imperatore di recepire e rendere operante la giurisdizione del pontefice romano sugli altri vescovi d’Italia e d’Occidente: il rescritto imperiale Ordinariorum accoglie, almeno in parte, le istanze avanzate nella sinodale e, con il riconoscimento della giurisdizione episcopale romana, può essere considerato una tappa significativa nel processo dei rapporti istituzionali tra papato e potere politico, una sorta di concordato ante litteram.
«Christiani catholici»
Successivamente la Sede romana damasiana raggiunge un altro importante obiettivo con il riconoscimento imperiale del proprio ruolo di depositaria e garante dell’unica fede cattolico-nicena ammessa dallo Stato. Nel celebre editto «Cunctos populos» promulgato da Teodosio a Tessalonica il 27 febbraio 380, l’imperatore ordina a tutti i popoli a lui sottoposti di abbracciare la fede cattolica, cioè quella che «il divino apostolo Pietro ha trasmesso ai Romani e che seguono il pontefice Damaso». Quelli che professano tale fede – aggiunge la costituzione imperiale – devono definirsi «christiani catholici», mentre tutti gli altri sono eretici e come tali dovranno temere non soltanto il castigo divino ma anche quello imperiale.
Il primato della Chiesa di Roma
Durante il pontificato di Damaso, dopo che il predecessore Liberio aveva per la prima volta usato l’espressione «sedes apostolica» per definire la Chiesa di Roma, il tema del primato della Chiesa romana assume «un rilievo assoluto». Nella sinodale «Et hoc gloriae» del 378, oltre alla celebrazione della Sede apostolica, è presente la dichiarazione secondo cui se Damaso «è per le sue funzioni uguale agli altri vescovi, egli tuttavia ha su di essi una primazia in virtù della prerogativa della sede apostolica». Il fondamento teologico del primato è indicato nel passo di Matteo 16, 17-19: per Damaso, primato e autorità della Chiesa romana non si fondano su alcuna costituzione conciliare ma direttamente sulla parola del Signore, la vox Domini.
Pietro e Paolo
Per l’affermazione del primato della Chiesa di Roma, oltre al ricorso alla figura di San Pietro, riemerge la figura di San Paolo che viene riproposta come ulteriore argomento funzionale al consolidamento della Sede romana. Nel concilio del 382, subito dopo la menzione di Matteo 16, 17-19, si sottolineava come Paolo fosse stato martirizzato nello stesso giorno di Pietro, a Roma sotto Nerone. Damaso, «con la concretezza che aveva sempre contraddistinto la sua azione», diede forza e valore a un culto, quello della coppia Pietro-Paolo, che a Roma da oltre un secolo era profondamente radicato. Nel celeberrimo «Elogium Petri et Pauli» (cfr. «memoria Apostolorum in catacumbas» degli Epigrammata Damasiana), il Nostro proclama solennemente la cittadinanza romana di Pietro e Paolo in virtù del comune martirio subito a Roma.
Un nascente diritto ecclesiastico
Il consolidamento del primato della Sede romana si sarebbe servito di «una curia pontificia centralizzata» e del ricorso, per la prima volta nella storia della Chiesa di Roma, alla decretale, espressione diretta dell’autorità pontificia ed elemento costitutivo di «un nascente diritto ecclesiastico». In tale contesto figurano Girolamo come «collaboratore di Damaso per le carte ecclesiastiche» e l’istituzione di una nuova figura professionale, il «defensor ecclesiae Romanae».
Il latino nella liturgia – San Girolamo
Negli ultimi anni del pontificato è possibile registrare «un evento di capitale importanza per la storia della Chiesa di Roma»: l’uso ufficiale della lingua latina nella prassi liturgica. La medesima attenzione alla prassi liturgica comporta l’avvio della revisione dei Vangeli e dei salmi per opera di Girolamo, per unificare, nelle intenzioni del Pontefice, la molteplicità di versioni latine della Sacra Scrittura. Dopo la morte di Papa Damaso, San Girolamo lasciò Roma nel 385 e intraprese un pellegrinaggio, dapprima in Terra Santa, silenziosa testimone della vita terrena di Cristo, poi in Egitto, terra di elezione di molti monaci (cfr Contra Rufinum 3,22; Ep. 108,6-14). Nel 386 si fermò a Betlemme, dove, per la generosità della nobildonna Paola, furono costruiti un monastero maschile, uno femminile e un ospizio per i pellegrini che si recavano in Terra Santa, «pensando che Maria e Giuseppe non avevano trovato dove sostare» (Ep. 108,14). A Betlemme restò fino alla morte, continuando a svolgere un’intensa attività: commentò la Parola di Dio; difese la fede, opponendosi vigorosamente a varie eresie; esortò i monaci alla perfezione; insegnò la cultura classica e cristiana a giovani allievi; accolse con animo pastorale i pellegrini che visitavano la Terra Santa. Si spense nella sua cella, vicino alla grotta della Natività, il 30 settembre 419/420.
La «pastorale martiriale»
Oltre a «un piano organico di edilizia sacra», Damaso si dedicò alla riscoperta delle autentiche tombe dei martiri, all’acquisizione della storicità delle loro imprese, per valorizzare un «patrimonio di santità». Questa «pastorale martiriale» di Damaso si serve degli «elogia martyrum»: epigrammi che, oltre a esprimere la sincera fede del loro autore, rivelano il loro peculiare carattere di strumento di propaganda. Non a torto in queste composizioni si è voluta vedere una sorta di liturgia perenne.
Il proprio epitaffio
Fin dai primi anni del suo pontificato, Damaso compone un autoepitaffio: «Colui che camminando calcò gli amari flutti del mare, / colui che ridà vita ai semi della terra destinati a morire, / colui che poté sciogliere dopo la morte i lacci letali della morte / e, trascorsi tre giorni, rendere vivo il fratello alla sorella Marta, / dalle ceneri – credo – farà risorgere Damaso».
(Autore: Eugenio Russomanno)
San Pammachio di Roma
Insigne uomo di fede (Memoria 30 agosto)

Pammachio era un cittadino romano, membro della casa dei Furii, un senatore di grande cultura. Nasce a Roma probabilmente nel 340, e vi muore nel 410. Vi è chi sostiene che fosse un sacerdote, ma non vi sono prove chiare che lo testimoniano. Era amico di S. Girolamo, con cui aveva studiato da giovane e con il quale era sempre rimasto in contatto. Nel 385 sposò Paolina, la secondogenita di S. Paola, un’altra grande amica di Girolamo. Pammachio fu probabilmente tra coloro che denunciarono Gioviniano a papa S. Siricio. Gioviniano sosteneva diverse eresie, tra cui l’idea che tutte le colpe e le loro pene sono uguali.
Pammachio sicuramente inviò delle copie degli scritti di Gioviniano a Girolamo, che li confutò in un lungo trattato. Pammachio scrisse a Girolamo per dirgli che trovava il suo linguaggio troppo forte, ed eccessivo l’elogio della verginità e il disprezzo del matrimonio. Girolamo gli rispose con due lettere, ringraziandolo per le osservazioni ma difendendo le sue posizioni. Gioviniano fu condannato in un sinodo a Roma e da S. Ambrogio a Milano. Non si sentì più parlare di lui eccetto per uno scritto di Girolamo dove viene detto che aveva «vomitato più che esalato l’anima tra fagiani e porci».
La moglie di Pammachio morì nel 397, Girolamo e S. Paolino di Nola inviarono lettere di condoglianze. Pammachio dedicò il resto della sua vita allo studio e alle opere di carità per ciechi, storpi e poveri. Insieme a S. Fabiola costruì un grande ospizio per pellegrini a Porto, per accogliere in particolare i poveri e i malati che arrivavano a Roma. Questo, conosciuto come lo xenodochium, fu la prima istituzione di questo tipo, lodata molto anche da Girolamo. Pammachio e Fabiola trascorsero molto tempo prendendosi cura dei loro ospiti.
Pammachio era molto infastidito dalla disputa tra Girolamo e Rufino. Aiutò il primo nella stesura degli scritti per la discussione, ma non riuscì a mitigare il linguaggio dell’amico, che continuava a trovare eccessivo.
Scrisse alla gente del suo ceto sociale in Numidia esortandoli ad abbandonare lo scisma donatista e ritornare all’ortodossia, ricevendo una lettera di ringraziamento da S. Agostino da lppona nel 401. Pammachio aveva una cappella nella sua casa sul colle Celio. Sul luogo del titulus Pammachii sorge oggi la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo, sotto la quale sono stati trovati i resti della casa del santo. Morì nel 410, all’epoca in cui Alarico e i goti occuparono Roma.
Santa Blaesilla
Vedova (Memoria 22 gennaio)

Blaesilla , nota anche come Blesilla (364–384), era una vedova romana e discepola di Girolamo . Era nata in una ricca famiglia senatoria a Roma, figlia maggiore di Santa Paola di Roma e sorella di Santa Eustochio , che erano membri di un gruppo di ricche donne cristiane che seguivano gli insegnamenti di Girolamo. Blaesilla rimase vedova all’età di 18 anni; all’inizio, godeva della sua libertà di vedova, ma dopo una febbre pericolosa per la vita, divenne “una donna cambiata” e una severa asceta , praticando il digiuno come disciplina spirituale. I suoi digiuni l’hanno drammaticamente indebolita ed è morta entro quattro mesi, all’età di 20 anni.
La morte di Blaesilla ha causato “aspre polemiche” a Roma; molti romani accusarono Girolamo della sua morte e chiesero che fosse allontanato da Roma. Girolamo in ogni caso di lì a poco lasciò Roma, con la madre e la sorella di Blaesilla, per vivere come un asceta in Terra Santa . La maggior parte della conoscenza sulla vita di Blaesilla proviene dagli scritti di San Girolamo, in cui descriveva la sua pietà e virtù. Ispirò anche Girolamo a tradurre il libro dell’ Ecclesiaste .
Blaesilla è stata descritta come “una ragazza bellissima e talentuosa che amava la vita allegra della Roma aristocratica”; le piaceva il teatro, le cene e la socializzazione con altri giovani. Quando Blaesilla aveva 18 anni, sposò Furio, uno dei figli di Titiana, che era devotamente cristiana come la madre di Blaesilla. Il marito di Blaesilla morì sette mesi dopo il matrimonio, lasciandola una ricca vedova. Pianse la sua morte, ma era troppo giovane per “rinunciare alla vita eccitante che amava”, e viveva come facevano le altre giovani vedove all’epoca, spendendo generosamente tempo e denaro sul suo vestito, aspetto e feste, e godendo della sua libertà come vedova.
Poco dopo la morte del marito, Blaesilla si ammalò di febbre; e quando si riprese era diventata “una donna cambiata”.Scelse di cedere ai suggerimenti della grazia, e di vivere “il resto della sua breve vita in grande austerità”.
Ha studiato le Scritture, ha imparato a parlare il greco con un accento perfetto, ha imparato l’ebraico in pochi mesi, ha portato con sé libri ovunque andasse e ha chiesto a Girolamo di scrivere dei commenti per farla studiare. Girolamo, parlando del suo talento intellettuale, disse: “Chi può ricordare senza un sospiro la serietà delle sue preghiere, la brillantezza della sua conversazione, la tenacia della sua memoria e la rapidità del suo intelletto?” È diventata un’asceta, indossava abiti semplici ma ha partecipato a digiuni estremi che l’hanno drammaticamente indebolita. Il comportamento di Blaesilla forse era dovuto ad una forma depressiva, che rapidamente la ridusse in fin di vita, e morì nel 384, all’età di 20 anni.